Anche conversando con cinesi colti fui sempre colpito dal fatto che questi popoli sono capaci di integrare il cosiddetto "male" senza "perdere la faccia". In Occidente è diverso. Per gli orientali il problema morale non sta in primo piano, come per noi; per essi il bene e il male sono compresi nella natura, con un loro senso, non sono altro che differenze di grado di una stessa cosa.

Mi fece una grande impressione costatare che la spiritualità indiana contiene altrettanto male quanto bene. Il cristiano lotta per il bene e soccombe al male; l'indiano si sente al di fuori del bene e del male e realizza tale condizione con la meditazione e lo yoga. Ma a questo punto la mia obiezione è che, assunto un tale atteggiamento, il bene e il male non hanno più lineamenti precisi, con la conseguenza di una certa indifferenza: non si crede più seriamente né al male né al bene. Questi sono al più considerati come il mio bene e il mio male, non importa che cosa sembri bene o male. Si potrebbe affermare, paradossalmente, che la spiritualità indiana difetti sia del male che del bene, o che sia a tal punto contraddittoria da richiedere il nirvana, la liberazione dagli opposti e dalle mille cose particolari.

La meta dell'indiano non è lo stato di perfezione morale, ma il nirvana. Desidera liberarsi dalla natura, e perseguendo questo scopo cerca nella meditazione l'assenza di immagini e il vuoto.

Io, invece, desidero permanere in uno stato di viva contemplazione della natura e delle immagini psichiche, non voglio essere liberato dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura: perché tutte queste cose mi sembrano indescrivibili meraviglie. La natura, l'anima, la vita, mi appaiono come la divinità dispiegata: che cosa potrei desiderare di più? Secondo me il significato supremo dell'Essere può consistere solo nel fatto che esso è, e non che non è, o non è più...La vera liberazione è possibile solo quando ho fatto tutto ci che era in mio potere fare, quando mi sono completamente dedicato a una cosa e ho partecipato ad essa al massimo. Se mi sottraggo alla partecipazione, sto amputando in certo qual modo la parte corrispondente della mia anima. Ma allora sono costretto a confessare la mia impotenza, e a riconoscere che forse ho trascurato di fare qualcosa di vitale importanza e che non ho adempiuto a un compito. In tal modo compenso la mancanza di un atto positivo con un chiaro riconoscimento della mia incapacità.

Un uomo che non è passato attraverso l'inferno delle passioni non le ha mai superate: esse continuano a dimorare nella casa vicina, e in qualsiasi momento può guizzarne una fiamma che può dar fuoco alla sua stessa casa. Se rinunciamo a troppe cose, se ce le lasciamo indietro, e quasi le dimentichiamo, c'è il pericolo che ciò a cui abbiamo rinunciato o che ci siamo lasciati dietro le spalle, ritorni con raddoppiata violenza.


Carl Gustav Jung - La saggezza orientale

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